25 dicembre 2010

Three to get ready

La cosa che odiavo di più era quando il getto della doccia diventava improvvisamente freddo. Succedeva durante tutto l'anno, ma me ne rendevo conto solo in inverno. Era un inconveniente dovuto ad un difetto delle tubature, che prima di arrivare al bagno passavano per la cucina dell'appartamento di sotto. Ci vivevano due francesi, nell'appartamento di sotto, avevano una bambina piccola e cucinavano tutto il giorno. Mi rubavano l'acqua. La temperatura calava di colpo, passava dai trentacinque ai quindici gradi senza preavviso. Io allora mi lanciavo contro il muro, aderivo con la schiena alle piastrelle alzandomi in punta di piedi per non prenderne neanche un poco, di quell'acqua gelida. Osservavo il getto, allungando di tanto in tanto una mano per sentire se era tornato caldo. Era un gesto vano, una domanda retorica, perché intanto le gocce mi schizzavano impietose sulle cosce, facendomi venire la pelle d'oca. Ogni tanto lo sbalzo di temperatura mi faceva piangere. Quando sentivo farsi strada tra le mie scapole il rivolo gelato, mentre avevo i capelli ancora coperti dal sapone che stavo massaggiando, mi scoppiavano in petto una serie di singhiozzi brevi e veloci, a metà strada tra una risata e una protesta. Strepitavo forte, ritraendo con stizza le dita dei piedi, poi un attimo dopo mi sentivo stupida, ammutolivo. Restavo così, a fissare l'acqua corrente spingendomi il più possibile contro il muro, per minuti eterni che continuavano ad accumularsi uno sull'altro. Era l'esperienza più simile alla fede che avessi mai provato, quella disperata attesa dell'acqua calda.

1 novembre 2010

Diaristica

Da grande voglio fare Kofi Annan, mi diceva Francesca. Aveva gli occhi grandi e una sorella piccola a cui faceva i compiti di inglese. Non era brava in inglese, la sorella piccola. Francesca sì, Francesca era brava in molte cose. Tornando a casa da scuola mangiavamo i surgelati della Findus, fuori pioveva forte, su via Foppa. Pioveva spesso, per tutto l'inverno. Si fumava sul balcone, con le gocce che rimbalzavano sulla balaustra di metallo, gettando il filtro della sigaretta con un movimento veloce del pollice e del medio. Pioveva sempre e io ero sempre a casa di Francesca. Anche quando ho incendiato la scrivania di fronte al suo letto pioveva. La scrivania era in legno, come la maggior parte delle scrivanie, superficie lucida e chiara, la luce calda, i copriletti rossi. Il resto della casa era in ristrutturazione, mancavano le porte. La casa di Francesca era sempre in ristrutturazione, ogni tanto cambiava l'ordine delle stanze, altre volte solo la disposizione dei mobili. Io ero triste, di quella tristezza atroce che si prova solo a sedici anni, quando le ingiustizie sembrano riversarsi sull'esistenza come la guerra. Come i simulatori di viaggi spaziali al Lunapark, che si fermano nel momento esatto in cui senti le budella implodere, lasciandoti in piedi sulla terra sporca, con la testa che gira e niente di reale da incolpare per la nausea che sale. Fuori pioveva ed era incredibilmente buio, su via Foppa. Giocavo con un foglio di carta e un accendino, perché quando si è tristi, a sedici anni, non si pensa alla combustione, non si pensa proprio alla chimica. Il tavolo è stato spento da Francesca, io l'ho acceso e poi l'ho anche indicato, ma non spento.
Ancora adesso a Milano continua a piovere spesso, in inverno, e le stanze della casa di Francesca hanno cambiato ordine molte volte. La scrivania però c'è ancora, ha una macchia scura al centro. Francesca vuole fare Kofi Annan, forse.

6 ottobre 2010

Alt un attimo ferma un poco il gioco

Grattacieli, grattacieli molto alti, come quelli delle grandi città dell'America, come quelli di Shanghai e di Tokyo. Grattacieli che sembrano essere stati poggiati in quell'esatto punto per sbaglio, in attesa di un'altra destinazione. Grattacieli che invece hanno radici di cemento e metallo che scendono giù giù sotto la strada. Con le luci rosse che lampeggiano intorno al cornicione per farsi avvistare dagli aerei, con un corpo massiccio, sinuoso per finta, ricoperto di vetrate che riflettono la luce gialla e grigia. Quella luce cupa che avverte i milanesi fermi al raccordo autostradale che sono arrivati a casa. E poi gru, tantissime gru, intorno alla stazione Garibaldi. Perché vogliono farne altri, vogliono farne ancora, vogliono farne di più, sempre di più. Anche se occuperanno tutto il cielo. Anche se tutte le piante dell'Isola moriranno senza luce.

"Le piante sui balconi moriranno?" chiede Valeria a suo fratello, guardando fuori dalla finestra.
Lui non la sente, in piedi sulla sedia sposta veloce i libri accatastati tra gli scaffali a muro. Con una gomitata fa cadere una pila di Dylan Dog.
"Ivan! Le piante sui balconi moriranno?"
"Vale mi cerchi un libro arancione?"
Ivan salta giù dalla sedia, raccoglie i fumetti e li getta sulla sopracoperta, poi a carponi tira fuori le scatole piene di vecchi quaderni da sotto il letto. Tasta con il palmo della mano il pavimento, raccogliendo la polvere di almeno un semestre.
"Cosa fai lì ferma? Ti ho chiesto di aiutarmi", dice a Valeria.
Cercano in tutte le tre stanze che compongono la casa. Stanze quadrate, incastrate tra loro, con il bagno che si apre sulla cucina, e la cucina che si apre sulla camera da letto. Guardano negli armadi, negli zaini e sotto il divano, in bagno vicino alla doccia. Valeria corre scivolando con le calze sul pavimento, mette la testa nelle pentole e in frigorifero, come se fosse possibile trovarci nascosto un libro. Si diverte, le scappa da ridere ogni volta che nota l'espressione preoccupata di suo fratello. Quelle sopracciglia che cercano di unirsi sopra il naso al limite della disperazione. Chiede a Ivan di chi è, il libro. In risposta solo silenzio e cuscini sbattuti.
"Una ragazza, è di una ragazza. E tu l'hai perso", canticchia strascicando le vocali.

Ivan la guarda, sorride. Il libro è di una ragazza. Si chiama Anna, prende ogni mattina un caffè macchiato al bar dei cinesi, alle sette e mezza circa. Ivan la saluta sempre con un cenno del capo, fanno colazione, ognuno occupato con se stesso, poi escono e vanno in due direzioni diverse, da cinque mesi.
"Ah, lui mi piace un sacco", ha detto Ivan ad Anna una settimana prima, indicando la copertina arancione poggiata sul bancone.
"Davvero? E cos'hai letto?"
"Stralci su internet".
Invece non è vero. Ivan non ha letto niente su internet, e poi ha perso il libro di Anna ancora prima di dare un'occhiata alla prima pagina. Non si ricorda neanche il titolo, o il nome dell'autore. Solo la copertina, arancione con un disegno nero al centro.
Si sono dati appuntamento per quella sera, alle dieci all'indiano di Via Pollaiuolo, dove la birra costa un po' meno. Lo ha proposto lei, per farsi riportare il libro.
"Scendo un attimo in libreria", dice Ivan a sua sorella. Magari lo ritrova, magari tra tutte le copertine c'è quella giusta, quella che serve a lui.
"Sì, ma Ivan, le piante sui balconi moriranno?"
Ivan non capisce subito, non vede perché le piante sui balconi dovrebbero morire.
"Per i grattacieli", gli spiega Valeria. Lo guarda dritto in viso, con la testa leggermente all'indietro per sconfiggere la differenza di altezza. Lo guarda seriamente, con tutta la preoccupazione che si può avere a sette anni.
"No, non moriranno. I grattacieli non fanno morire le piante, sono solo molto brutti"
"E allora perché li costruiscono, se sono brutti?"
"Per far vedere che ce l'hanno più duro", risponde Ivan con tutta la calma che si può avere a diciotto anni.
Valeria non sa cosa voglia dire suo fratello, chi sia quella terza persona plurale. Sta per fargli un'altra domanda. Non fa in tempo che lui è già sul pianerottolo.
"Torno subito, tu intanto controlla le piante".

Ivan scende le scale, sfiora con il gomito il corrimano, concentrato su un titolo che non ricorda. Scende le scale senza rendersi conto che dalle finestre dei piani inframmezzati non si vede più il cielo. Solo una parete di vetri che sale verso l'alto, a perdita d'occhio. Ancora più su ci sono solo i becchi delle gru, rossi e stonati. I grattacieli superano di centinaia di metri tutte le case del quartiere, le schiacciano, le sovrastano. Dall'alto Milano sembra un formicaio. Un labirinto grigio che si estende verso il Cimitero Monumentale, verso Buenos Aires e la Stazione Centrale. L'Isola quasi non esiste, oscurata da un paesaggio improvviso, sbagliato, da un paesaggio che fatica ad appartenerle. E Ivan sembra piccolissimo, mentre cammina per quelle strade di giorno in giorno sempre più buie.

22 agosto 2010

Voce piccolina

Il cantautore guarda in alto, prima o dopo la sigaretta. Verso la falena, il pipisterello, il colibrì milanese notturno, che da due pezzi osserva a cerchi concentrici le braccia, la testa del bassista. Il cantautore guarda in alto, e aderisce a se stesso. Fa aderire una spalla all'altra spalla, un ginocchio all'altro ginocchio, perchè quella cosa che vola gli fa fottutamente paura. Fottutamente, come i sottotitoli italiani di un telefilm americano. La effe e le ti pronunciate forte. Continua a guardare in alto e il colibrì vola, plana, guarda meglio il bassista, torna su e riplana. Poi con noncuranza sotto gli occhi del gruppo, del pubblico, dei fonici, si allontana verso i bagni chimici. Privacy. Il cantautore disaderisce, ricomincia quel suo lavoro.

28 luglio 2010

Inni di frontiera

Quindi io se mi danno delle vacanze dormo. Nel senso che le prendo, le vacanze, e mi metto a dormirci sopra. Me ne sto intafognata tra un lenzuolo e l'altro lenzuolo. L'altro lenzuolo però dopo poco si intafogna su se stesso, di lato, e io resto su un lenzuolo solo. Il piede sinistro no, lui rimane tra i due lenzuoli. Ma io e il mio piede sinistro non ci apparteniamo, siamo solo attaccati per decisione esterna. Come il partito e il democratico. Non dormo sempre. Dormo solo dalle sei della mattina alle sei del pomeriggio. Ed è una questione di gran principio, questa delle ore in cui dormire sulle vacanze. Dormo intafognata su un lenzuolo con il piede sinistro nascosto sotto l'altro lenzuolo. E se tu mi guardassi al buio e con poca attenzione penseresti che me l'hanno amputato, il piede sinistro dalla caviglia sinistra. Come il democratico dal partito. Poi capita che mentre sto dormendo io allunghi il braccio verso l'interruttore del ventilatore. Il braccio sinistro. La mia parte destra non è considerabile, quando dormo sulle vacanze. Se tu mi guardassi al buio e con poca attenzione penseresti che non ce l'ho, una parte destra. Arriveresti addirittura a credere che sono una donna a due dimensioni senza il piede sinistro. E questa potrebbe essere una cosa molto carina. Dipende tutto da come la pensi, la bidimensionalità. Accendo il ventilatore con l'indice della mano sinistra perchè fa molto caldo. Comincia a fare un rumore sordo, il rumore degli aerei quando decollano. E allora mi immagino che si stacchi dal soffitto, il ventilatore, e si metta a volare per tutta la stanza. Non un bel volo maestoso però. Un volo scalcagnato, vagamente metallico, compresso tra le mie quattro pareti. Per questo motivo schiaccio di nuovo l'interruttore, e il ventilatore si spegne. Dormo così, intafognata sulle vacanze per tantissime ore. E davvero, guardandomi al buio e con poca attenzione, ti sei convinto che io sia bidimensionale e senza un piede, con un ventilatore che vola sulla mia testa andando a sbattere contro il cassettone e la libreria.

27 giugno 2010

Altro da me

Vorrei schiacciare le zanzare mentre pungono le persone. Paf, sonoramente, tra il collo e la scapola del ragazzo in coda per la birra davanti a me, sul ginocchio di quella che fuma appoggiata ad un furgone. "Grazie". "Non c'è di che". E la serata continuerebbe. Invece a Milano, ma forse anche in altri agglomerati urbani, è richiesto un certo tipo di intimità, per schiacciarsi reciprocamente le zanzare. Quindi serro le labbra strette, e resto ferma a osservare quel quadratino di pelle anonima. E mi sento un po' in colpa.
Un' altra cosa che non posso fare è scoprire come finiscono i tatuaggi degli sconosciuti. Sollevare le maniche delle loro magliette per vedere di che colore sono i capelli della pin-up, o quanti garofani può contenere una spalla. Mi passano accanto gesticolando nel caldo, alzando le braccia per chiamare qualcuno, e io piego la testa di lato, inarco leggermente la schiena per avere la visuale migliore del disegno che indossano. Poi faccio finta di niente, continuo a parlare.
Le relazioni interpersonali sono sempre complesse.

17 giugno 2010

Piove, governo ladro

Insomma, il punto di tutta la faccenda è che i leghisti non vogliono il brutto tempo. Dice Zaia che è proprio assurdo, che le previsioni metereologiche diano "pioggia" in Veneto. E a metà Giugno poi! Quando lo sanno tutti che in estate non piove - tuona il presidente della regione (come la nuvola sopra di lui prima che scoppi il diluvio). Dare un'immagine distorta della Val Padana, rappresentandola come una landa piovosa e piena di nebbia, è palesemente un complotto contro la Lega, una manovra dei metereologi romani che vogliono distruggere il turismo del nord Italia. Qualcuno prova ad insinuare che, forse, gli conveniva andare a fare i federalisti in Puglia, in cui pare esserci un ottimo clima, o ancora meglio in Sud Africa (sembra però che anche lì ogni tanto piova - sostengono quelli che seguono i Mondiali). Ma i leghisti sono affezionati alla linea deliziosamente retta del Po (anche se il figlio del loro leader in carica non è mai riuscito a risolvere l'esercizio di geometria della terza prova) e al Rubicone non hanno neanche intezione di arrivarci. A niente sono servite le ballate in milanese che raccontano di giovanotti innamorati che nella nebbia vanno a sbattere contro i pali dei lampioni: la pioggia è utile solo al riso. E il riso, si sa, è roba da cinesi.

8 giugno 2010

The cave

“Sto imparando a bere il vino rosso, sapete?”
Giulia lo dice a voce bassa, con lo sguardo perso verso la superficie del tavolo. Come se non stesse parlando con Ernesto e Francesca ma con i due ippopotami di plastica con cui stanno giocando. Sono due, uno giallo e uno rosa, che tentano di rubarsi a vicenda delle palline colorate con le loro bocche meccaniche. Ernesto e Francesca azionano velocemente le molle, con i nervi dei polsi tesi e le spalle incurvate in avanti. Ernesto si distrae, guarda Giulia che parla stringendo una bottiglia di Coca cola.
“Non stai imparando a bere il vino”, le dice.
Francesca salta giù dalla sedia con un gridolino di vittoria, accennando dei movimenti di bacino che vorrebbero significare compiacimento. Ha vinto, di nuovo. Poi scoppia in lacrime, di nuovo. È la terza partita che vince e la seconda volta che si mette a piangere da quando è tornata a casa dal lavoro. Giulia ed Ernesto si voltano verso di lei, serrano contemporaneamente le labbra.
“Scendiamo a bere”.
Prendono due birre. Giulia ha ancora tra le mani la Coca cola. Entrano in silenzio in ascensore, Francesca ha smesso di piangere e ha tutto il mascara colato attorno agli occhi che la fa sembrare un panda stupito. Il loro appartamento è al quinto piano, cominciano a bere in silenzio. Arrivati al piano terra restano dentro, continuano a bere, Giulia ed Ernesto seduti per terra, con le spalle appoggiate contro la tappezzeria stinta delle pareti, Francesca resta in piedi e ogni tanto si guarda nello specchio. Non si parlano. Quando le bottiglie sono vuote Francesca schiaccia il numero cinque. L’ascensore si rimette in moto con uno strattone.

25 aprile 2010

Subway

E quindi alla fine La cavalleria, il mio racconto, quello che è già uscito su Follelfo, a quanto pare è stato ammesso alla finale di Subway, che è quella cosa che se la vinci ti distribuiscono nelle metropolitane di tutto il regno, e poi sei felice.
Il che significa che fino a venerdì prossimo potrete leggerlo, La cavalleria, e addirittura anche votarlo, QUI.
Ecco insomma, è un po' così che va. Però evviva.

30 marzo 2010

D'amore, dialettica e altre sciocchezze

"Jean-Paul", disse Simone De Beauvoir a Sartre, in una serata che ci piace pensare particolarmente tempestosa.
"Jean-Paul", disse Simone De Beauvoir a Sartre, vedendolo arrivare in ritardo, con quei pochi capelli tutti scarmigliati e l'occhio destro che colpevole distoglieva lo sguardo da lei ancora più del solito, "dove sei stato?".
Lo disse fingendo indifferenza, sfogliando distrattamente le pagine di un librone, perchè non voleva, Simone, che lui la immaginasse come una donnetta fragile e non come la più grande intellettuale di Francia, o quantomeno del loro quartiere.
"Simone", disse Sartre, distogliendo lo sguardo da lei con quello che ci piace pensare fosse un atto di colpevolezza, ma in realtà era solo strabismo.
"Simone", disse Sarte, "lo sai che questo mio problema oculistico fa sì che mentre ti guardo, con tanto amore e dedizione, io non possa fare a meno di guardare anche un'ampia porzione di spazio alla tua sinistra. Per questo motivo ieri, mentre facevamo la spesa, sono stato costretto dalle mie disposizioni fisiche a notare una biondina che comprava del brodo vegetale".
Sartre si interruppe un attimo per valutare la reazione di Simone De Beauvoir, la quale aveva chiuso con uno scatto secco la storia romanzata della coscienza, che pretendeva di far finta di leggere mentre lui le parlava. Jean-Paul Sartre si rese conto che non bastava la sua menomazione fisica ad impietosire la più grande intellettuale di Francia, o quantomeno del loro quartiere.
"Simone", disse Sartre allora, con una notevole faccia da schiaffi.
"Simone", disse Sartre "l'ho fatto solo per le mie ricerche filosofiche. Tu sei l'amore assoluto, ma per avere conoscenza di questo mondo io devo anche sperimentare gli amori contingenti. Quella biondina che comprava brodo vegetale è stata un piacere contingente a scopo prettamente accademico, ma poi sono tornato qui da te, mio assoluto amore".
"Merda", pensò Simone De Beauvoir, che era ferratissima in fatto di sistemi filosofici, ma poco scaltra nella quotidianità.
"Merda", pensò Simone De Beauvoir, "concettualmente non fa una piega".
E, incerta sulla risposta, andò a prepargli la cena.

14 marzo 2010

Amici felici

Il mio amico Giorgio ha disegnato una vignetta. Tempo fa. Questa vignetta vede ritratti un cane e un quotidiano. Più precisamente un quotidiano con una lunga lingua sbavante che porta sulle spalle un cane che ha degli occhi (anzi un occhio solo) proprio grossi e stupiti. La vignetta, sempre la stessa, si intitola "Stampa asservita" e recita "Ora è il giornale che ti porta il cane a casa".
"Ecco a cosa serviva!", ho pensato io. Nessuno, infatti, si è mai preso la briga di comprarmi un cane.
E da allora ci spero sempre, che magari il notiziario della mattina mi faccia il caffè.

7 marzo 2010

A sua immagine e somiglianza

"Gesù ha fatto un volo di due metri prima di grattugiarsi la faccia sull'asfalto. Le braccia allargate come in preghiera non gli hanno impedito di spaccarsi la testa, che pure non sanguina, a testimonianza di un inutile, solitario miracolo. La gente del quartiere si sporge dai balconi, dai bassi, fa capolino dalle tende scostate, si fa un'idea della situazione: la vespa rovesciata su un fianco, Gesù a terra, e il presunto guidatore, un ragazzino in lacrime, seduto sul marciapiede. Cerca di capire se deve interessarsene oppure no e decide che sì, ci si potrebbe interessare, anche se in questo caso si tratta di affare da poco: a terra c'è un solo ferito, per di più abituato al martirio".

(G. Marchetta - Napoli ore 11)

E' uscito un libro. Un libro che è composto da cinque racconti, tutti ambientati a Napoli, tutti alle 11 di mattina. Secondo me dovreste proprio comprarlo. E poi leggerlo, dopo averlo comprato. Si intitola "Napoli ore 11" e l'autrice è Giusi Marchetta.

22 febbraio 2010

Denti

Basta che prima ritagli due buchi da cui guardare. Il resto è davvero solo questione di divergenze stilistiche.

11 febbraio 2010

La cavalleria

Ei! C'è un mio racconto, su Follelfo, in cui parlo di rosari ortodossi, Leonardo Da Vinci, supereroi e harakiri. E anche di una gatta che si chiama Bastiglia e di un fidanzato che non parla.

Comincia così:

"La prima volta che aveva ricevuto una sua telefonata, Linda si era sentita domandare cosa ne pensasse del fatto che solo gli uomini potessero usare il komboloi. Era una voce femminile, un po’ roca, sibilava le esse. Non la conosceva."

Se volete potete leggerlo qui.

20 gennaio 2010

"Anche l'altezza mi mette paura, e il sangue e i terremoti; per il resto non temo nulla, tranne la morte, il pensiero di mettermi a urlare in mezzo alla folla, l'appendicite, e un attacco di cuore, già, anche questo."
( Chiedi alla polvere - J. Fante)

Questo blog non è un albergo. Lo so.