Qualche mese fa mi è stato chiesto, da Subway edizioni, un racconto da inserire in un'antologia per gli 80 anni di ATM, e scriverlo, devo dire, è stato piuttosto divertente. Oggi l'antologia è stata presentata ufficialmente, io purtroppo non ho potuto partecipare e quindi al momento non ho ben chiaro come/dove si possa recuperare. In ogni caso il mio racconto c'è, lo giuro. Ed è un racconto d'ammore! Si intitola "Calce", e chi volesse può leggerlo qui di seguito.
Gigi il Magutt se la faceva con l'Eliana, che andava in seconda liceo al Beccaria ed era più alta di lui di un palmo intero. Aveva i capelli rossi e Gigi la chiamava “la mia streà”. Si vedevano al parco delle Basiliche nel tardo pomeriggio, poi l'Eliana doveva tornare a casa al Carrobbio per aiutare suo fratello con i compiti. Stavano seduti sulle panchine lungo il viale, si raccontavano la vita e Gigi le accarezzava le guance con le mani screpolate dal lavoro di febbraio. Le mani dell'Eliana invece erano tiepide e perfettamente lisce, protette da guanti verdi che le arrivavano al gomito e che di tanto in tanto tirava su attraverso le maniche del cappotto. A volte si presentava agli appuntamenti con il cane, un bassotto dal pelo ispido e le gambe corte che chiamava Sir John Willoughby, come il protagonista di un romanzo d'amore. Per Gigi il Magutt invece era “La Pantegana” e chiedeva all'Eliana se per caso l'avesse pescato nel naviglio. Lei allora gli tirava una pacca sulla spalla, era una pacca che non faceva male a nessuno e Gigi rideva. Non odiava La Pantegana, lui, ma gli sembrava di dover dividere la sua morosa con un altro per quei pochi e brevi momenti in cui l'aveva a disposizione. Un altro che mordeva il guinzaglio e la distraeva mentre Gigi cercava di baciarsela tutta.
Gli anni di differenza erano otto, Gigi ne aveva venticinque ed era magutt dai sedici, ogni tanto arrivava agli appuntamenti in ritardo, ancora sporco della polvere del cantiere.
«La prossima volta non ti aspetto», diceva lei, credendoci poco, con la voce che cedeva mentre cercava di sembrare arrabbiata.
«Ti costruirò un palazzo», le prometteva allora Gigi. Le raccontava di come impastava la calce, quale fosse la migliore tecnica per gli infissi, e l'Eliana, che era abituata a mandare a memoria i versi dell'Iliade, lo guardava con tanto d'occhi e pensava di amarlo ancora di più.
Quando tornava a casa Gigi il Magutt ci ripeteva «Io questa me la sposo», lo urlava appena apriva la porta, cercando di centrare al volo il gancio del cappello.
«Gigi, una come quella la fanno sposare con un medico, vacci finché puoi», gli dicevamo.
E il cappello cadeva a terra.
In tutto eravamo quattro, tutti scapoli. Ci dividevamo due appartamenti sullo stesso pianerottolo in un palazzo di Viale Gorizia. Affacciandoci dalla finestra vedevamo le barche nella Darsena e sporgendoci un po' verso destra riuscivamo persino ad immaginare uno scorcio del naviglio. La Rosaria, che ci veniva a fare i mestieri due volte a settimana, diceva che avevamo bisogno di una donna, che non era possibile vivere in quella sporcizia. Una volta aveva trovato nel bidet degli attrezzi da lavoro di Gigi e per convincerla a restare avevamo dovuto alzarle la paga. Abitava a Opera e dopo i quattro piani di scale si aggrappava alla ringhiera ripetendo «Oioioi il mio diabete». E nessuno capiva mai cosa c'entrasse il diabete con le scale.
«Su Rosaria su», le facevamo noi passandole un bicchiere d'acqua.
Oltre a me e Gigi il Magutt c'erano il Mario e l'Erardo. Lavoravano entrambi sul 15, uno guidava e l'altro era allievo controllore. L'Erardo era bravissimo a mettere a tacere gli ubriachi e ormai erano anni che si facevano assegnare lo stesso turno. Preferivano quello che andava dal tardo pomeriggio a notte fonda. Era raro che fossimo tutti a casa nello stesso momento, e quando capitava finivamo al bar di sotto e tiravamo le tre seccando bottiglie di rosso e parlando di politica e della morte di Fausto Coppi, di cui ancora dopo un mese non riuscivamo a capacitarci. Altre volte giocavamo a scopa nella nostra cucina, mia e di Gigi, che il Mario e l'Erardo nella loro non ci avevano mai preparato neanche un uovo. L'intonaco era crepato in diversi punti, sul soffitto sopra i fornelli si era formato un alone scuro di cenere, le mensole erano fissate male e ogni volta che una porta sbatteva le stoviglie vibravano una contro l'altra. Era l'unica stanza della casa che avesse un tavolo e non c'era un mobile che non fosse stato recuperato su un marciapiede o da qualche parente che voleva liberarsene. L'Erardo quando fumava teneva la sigaretta stretta all'attaccatura tra indice e medio, ad ogni boccata pareva cercasse con passione il palmo della mano e noi lo osservavamo sogghignando.
«Che volete, ho imparato così», ci diceva placido.
Io ero l'unico che studiava ancora, lettere classiche. Per pagarmi l'università ogni tanto aiutavo Gigi in cantiere.
«Vuoi che gliele dia io, le ripetizioni di latino all'Eliana?» lo provocavo mentre andavamo al lavoro. Ma quello quasi non mi stava neanche a sentire.
Così passava l'inverno. E l'inverno a Milano, in quei mesi scuri tra il Natale e la primavera, è un deserto senza speranza, è la pianura padana che cerca di entrare dalla finestra e si accomoda in salotto. Andavamo a dormire e ci svegliavamo senza riuscire a dire con certezza che ore fossero, ci facevamo coccolare dalla nebbia ripetendo macchinalmente i soliti, quotidiani gesti. Il Mario ad ogni incrocio malediceva i passanti che si gettavano in mezzo alla strada un attimo prima del passaggio del tram. Noi altri camminavamo a testa bassa nel buio, stringevamo stretta la sciarpa e cercavamo di scacciare il freddo che ci attanagliava le tempie interrompendo ogni pensiero. Continuavamo ad avere i geloni alle mani ogni volta che prendevamo la bicicletta, io studiavo per gli esami, l'Erardo faceva scendere gli ubriachi dal 15 tenendoli per il bavero del cappotto. Finché un giorno di quegli ultimi mesi ostili Gigi il Magutt aveva combinato il guaio.
Era tornato a casa col viso amareggiato e le mani affossate nelle tasche del cappotto. La porta d'ingresso aveva sbattuto facendo tintinnare tutti i bicchieri sulla mensola in cucina. Gigi non aveva urlato ai muri che “quella se la sarebbe sposata”, non aveva neppure tirato il cappello verso il gancio. Gli era rimasto sulla testa, floscia e mesta lana sbattuta su quei capelli castani e bianchi dalla polvere di gesso.
«Sono un pirla», mi aveva detto Gigi il Magutt con il cappello ancora calcato in testa, dopo essersi dimenticato l'appuntamento con l'Eliana.
Era il giorno del suo onomastico, e avrebbe dovuto portarla al ristorante, una trattoria bolognese sul Naviglio Grande, con i soldi dell'ultima paga. L'aveva proposto lui.
«Che finalmente ti posso offrire qualcosa», aveva aggiunto.
E invece all'appuntamento per l'onomastico Gigi il Magutt non ci era mai andato. Era rimasto a brindare l'arrivo di quei pochi soldi con gli altri manovali di fronte al cantiere di Mac Mahon. Si erano versati da bere per un'ora, e poi un'altra ora, e poi un'altra ora. Gigi aveva guardato le gambe delle cameriere, le aveva apprezzate e aveva disquisito con i presenti su quali fossero le migliori, senza ricordarsi di quelle che lo stavano aspettando dall'altra parte della città.
«Dice che aveva ragione la sua amica, la Bice, che con uno come me non c'è futuro».
Gigi si era tolto il cappello, poi se l'era rimesso, aveva guardato me, i miei libri, il mio vocabolario, ed era uscito senza dire altro.
Quella notte non era più rientrato.
La casa occhieggiava alle prime luci del giorno dal centro del Carrobbio, piantata in mezzo alla strada esattamente sotto alle finestre dell'Eliana. Il punto focale di un convulso nodo di macchine, tram, esseri umani che si dipanava verso via Torino tra le urla degli impiegati in ritardo e le sirene dei vigili. Bisognava divellerla dalla strada, qualcuno aveva chiamato i pompieri, che si sbrigassero che la gente doveva andare al lavoro. Era un palazzo alto all'incirca un metro e sessanta centimetri, largo un poco di più. In mattoni grezzi, senza rivestimenti e intonaco, ma intorno alle finestre e alla porta erano stati posti dei listelli di legno a segnare gli stipiti. Aveva addirittura il suo bravo camino, e sulla facciata era stato scritto in vernice rossa “Scusa”, in quello spazio tra le finestre dell'ultimo piano e il tetto, dipinto anch'esso dello stesso colore. Era un palazzo frettoloso, tirato su alla luce dei lampioni, ma dalle proporzioni perfette. Minuscolo, in mezzo ai giganteschi edifici che lo attorniavano, svettava dignitosamente tra le rotaie, rivendicava con sfida la sua presenza nella pianta urbana.
Eravamo stati sicuri fosse opera di Gigi fin da subito, dalla telefonata del Mario dal bar di Cesare Correnti.
«Una casa», aveva detto il Mario.
«Una casa come?» gli avevo chiesto.
«Una casa casa. Con le finestre e il tetto, alta fino al petto, larga come quattro cassette una accanto all'altra. È cementata alla strada, non passa niente, è tutto bloccato».
Ci chiedevamo come avesse fatto, a costruire una casa per le bambole, una casa per l'Eliana, presumibilmente tra il tramonto e l'alba, senza che nessuno l'avesse visto, senza che un tram o una macchina gli fossero andati contro, mandando all'aria i mattoni ancora prima che potessero saldarsi.
Al Carrobbio abbiamo osservato i pompieri prenderlo a picconate, il palazzo di Gigi il Magutt. Sventrarlo a poco a poco e poi raschiarne via le macerie dalla strada. I bambini cercavano di avvicinarsi, chiedevano alle madri che li trattenevano perché lo stessero distruggendo. Nessuno, a parte loro, sembrava ritenere più di un momentaneo disagio da estirpare la dichiarazione d'amore che Gigi il Magutt aveva cementato nel centro di Milano.
L'Eliana ci aveva riconosciuti dall'altro lato del marciapiede, ci aveva salutati con un cenno della mano, mentre guardava il suo palazzo con gli occhi che ridevano.
«Guarda come se la gongola», aveva commentato il Mario mentre gli ultimi pezzi di calce rotolavano per la strada.
Sapevamo che Gigi se la sarebbe ripresa, l'Eliana, con quella bravata da muratore romantico.
Gigi il Magutt il necessario per costruire quella casa del perdono l'aveva rubato al cantiere di Mac Mahon, diventato per lui un'entità dotata di vita propria, che l'aveva strappato a forza dalle braccia dell'Eliana. Ce lo aveva raccontato in una trattoria davanti al deposito in Pietro Custodi. Eravamo andati a recuperare l'Erardo per riferirgli le spacconate del nostro manovale innamorato e l'avevamo trovato lì, Gigi, sotto il tabernacolo all'entrata che guardava in su, come se la sua prodezza notturna non gli fosse bastata e si volesse arrischiare pure a spiare sotto le gonne della Vergine.
«Ecco, ringrazia la Madonna!» gli aveva urlato il Mario dall'imbocco della via.
«L'Eliana se la mangiava con gli occhi quella tua casuccia. Ringrazia il Cielo, 'va!»
Eravamo rimasti a commentare con dovizia di particolari l'impresa del Gigi, appiattendoci contro il muro per scansare i tram che andavano e venivano. Dall'entrata del deposito vedevamo il soffitto che pareva ricamato nel ferro in un intreccio di travi metalliche. Un po' più in là c'era il cielo di Milano, dello stesso colore della lamiera del deposito, disteso sopra di noi come una coperta. Ma non ci pareva più di essere prigionieri della nebbia, non sembrava quasi neanche febbraio. Eravamo felici, tutti, di una felicità impercettibile e immotivata, Gigi il Magutt con quella casa aveva fatto il miracolo, mica la Madonna.
«La colazione ve la pagate voi però», ci aveva detto mentre entravamo in trattoria.
«Che se l'Eliana ancora mi parla gliene dovrò offrire almeno venti».
Quando gli avevamo chiesto se qualcuno in Mac Mahon poteva averlo visto portare via tutta quella roba, Gigi il Magutt aveva continuato a versarsi il vino in silenzio.
L'avevano trovato il Mario e l'Erardo, tornando dal turno di notte, sulla strada di casa. L'avevano trovato bloccato tra due piemontesi grossi e quadrati, venuti dal Mac Mahon per scrivergli in faccia con i pugni che le sue romanticherie poteva farle con la calce di qualcun altro.
Gigi il Magutt si trovava imbelle tra quelli, quasi ridicolo mentre un piemontese gli teneva stretta intorno al collo la sciarpa che gli aveva cucito sua nonna quando se n'era venuto a Milano, e l'altro lo riempiva di colpi sul naso e sul costato. Così in due lo trascinavano giù dalla scalinata di Ascanio Sforza portandolo lontano dalle luci della strada, verso il Pavese, che alle due di notte è frequentato solamente dai topi.
«Ma che volete, avranno voluto rapinarlo», avevano sostenuto i carabinieri alzando le spalle. Si erano materializzati dalla nebbia, mentre quei due se la davano a gambe lungo la sponda del naviglio rincorsi dal Mario e dall'Erardo. Si erano trovati lì, i due carabinieri, i due tranvieri e i due piemontesi, con in mezzo Gigi il Magutt, tutto pesto, che a malapena si reggeva sulle gambe.
«E sai andargli a spiegare la storia di Gigi e dell'Eliana», mi aveva raccontato il Mario.
«Meglio lasciargli credere che cercassero dei soldi».
Gigi il Magutt era tornato a casa con tante di quelle costole in meno che Dio avrebbe potuto crearci un esercito di prime donne, pronte a farlo impazzire d'amore e costruire monumenti in loro onore per tutta la cinta dei Bastioni. Il naso era gonfio e rosso come un pomodoro e gli occhi due melanzane mature.
«Gigi con la tua faccia ci prepariamo un minestrone», gli avevo fatto io come aveva messo piede dentro casa.
Non aveva neanche più il cappello da lanciare, finito chissà dove mentre gli facevano conoscere a suon di cazzotti tutto il Ticinese. E mentre l'Erardo e il Mario mi raccontavano l'accaduto quello se ne stava a guardarci cercando di aggiustarsi la faccia con del ghiaccio. Spostava la pezza a destra e a sinistra, poi verso il naso, poi ancora sulle borse degli occhi, e non era mai abbastanza per coprire ogni danno. Non diceva una parola, pareva quasi divertirsi mentre quei due mi dicevano che l'avremmo trovato l'indomani in un fosso, se loro non avessero fatto quel turno straordinario.
Ma Gigi il Magutt non faceva una piega, con le sue ossa rotte e il suo ghiaccio se ne stava beato a guardare il soffitto. Perché tanto, prima delle botte, aveva passato il pomeriggio nei giardini di Piazza Vetra, che con quella casetta in mezzo al Carrobbio se l'era ripresa, l'Eliana.