26 febbraio 2012

Destinatario non pervenuto

Un vecchio compagno di università mi ha chiesto di partecipare con un racconto alla rubrica 'Scrittori della domenica' sul blog collettivo Potato Pie Bad Business (dategli un occhio, sono dei guasconi cattivissimi), e non potevo mica dirgli di no, dopo esserci vestiti da Sid e Nancy un carnevale di molti lustri fa.
Per la trama mi sono lasciata ispirare dal lavoro dei ragazzi di indirizzoinesistente.com, che danno "nuova vita" alle lettere disperse nei meandri degli uffici postali mandandole a nuovi destinatari (date un occhio anche a loro, io ho lasciato la mia e-mail e ne ho ricevuta una bellissima!).

Quindi ecco la mia storia sulle lettere perdute, QUI

p.s. (ieri un'amica mi ha sgridata perché non scrivo mai cose nuove sul blog. Le ho promesso che avrei provveduto e lo farò, giurin giurello)

23 dicembre 2011

Dopo Ticonderoga

Tendo sempre a dare le notizie con un certo ritardo, mi piacerebbe dire che lo faccio per qualche profonda convinzione, o perché mi piace lasciare decantare le cose, come il vino. Ma in realtà dipende solo da un malsano rapporto con lo scorrere del tempo e una fondamentale disorganizzazione.
La notizia in questione, che, in verità, risale solo a poche settimane fa, è che ho scritto un racconto per il numero 0 di Flanerì Mag, dato alle stampe in occasione della fiera di Roma Più libri più liberi.
Il mio racconto si intitola Dopo Ticonderoga e ha un protagonista che si chiama Zeno, senza avere nulla a che fare con la famigerata Coscienza di, e una protagonista che si chiama Violetta e, lei sì, ha a che fare con la Traviata, o quasi. Si può leggere sulla versione on-line della rivista, qui.

8 ottobre 2011

La mano di Antonius Block

E' uscito il nuovo numero di Colla, il primo dei tre speciali che i ragazzi della redazione proporranno nel corso dei prossimi mesi. Dentro c'è anche un mio raccontino breve, che si intitola "La mano di Antonius Block" e parla del ponte di via Farini e della Nera Signora. Oltre al mio, poi, ci sono anche i racconti degli ottimi Michele Turazzi, Alessandro Romeo e Giacomo Buratti. Si trovano tutti on-line QUI.

1 ottobre 2011

Calce

Qualche mese fa mi è stato chiesto, da Subway edizioni, un racconto da inserire in un'antologia per gli 80 anni di ATM, e scriverlo, devo dire, è stato piuttosto divertente. Oggi l'antologia è stata presentata ufficialmente, io purtroppo non ho potuto partecipare e quindi al momento non ho ben chiaro come/dove si possa recuperare. In ogni caso il mio racconto c'è, lo giuro. Ed è un racconto d'ammore! Si intitola "Calce", e chi volesse può leggerlo qui di seguito.

Gigi il Magutt se la faceva con l'Eliana, che andava in seconda liceo al Beccaria ed era più alta di lui di un palmo intero. Aveva i capelli rossi e Gigi la chiamava “la mia streà”. Si vedevano al parco delle Basiliche nel tardo pomeriggio, poi l'Eliana doveva tornare a casa al Carrobbio per aiutare suo fratello con i compiti. Stavano seduti sulle panchine lungo il viale, si raccontavano la vita e Gigi le accarezzava le guance con le mani screpolate dal lavoro di febbraio. Le mani dell'Eliana invece erano tiepide e perfettamente lisce, protette da guanti verdi che le arrivavano al gomito e che di tanto in tanto tirava su attraverso le maniche del cappotto. A volte si presentava agli appuntamenti con il cane, un bassotto dal pelo ispido e le gambe corte che chiamava Sir John Willoughby, come il protagonista di un romanzo d'amore. Per Gigi il Magutt invece era “La Pantegana” e chiedeva all'Eliana se per caso l'avesse pescato nel naviglio. Lei allora gli tirava una pacca sulla spalla, era una pacca che non faceva male a nessuno e Gigi rideva. Non odiava La Pantegana, lui, ma gli sembrava di dover dividere la sua morosa con un altro per quei pochi e brevi momenti in cui l'aveva a disposizione. Un altro che mordeva il guinzaglio e la distraeva mentre Gigi cercava di baciarsela tutta.
Gli anni di differenza erano otto, Gigi ne aveva venticinque ed era magutt dai sedici, ogni tanto arrivava agli appuntamenti in ritardo, ancora sporco della polvere del cantiere.
«La prossima volta non ti aspetto», diceva lei, credendoci poco, con la voce che cedeva mentre cercava di sembrare arrabbiata.
«Ti costruirò un palazzo», le prometteva allora Gigi. Le raccontava di come impastava la calce, quale fosse la migliore tecnica per gli infissi, e l'Eliana, che era abituata a mandare a memoria i versi dell'Iliade, lo guardava con tanto d'occhi e pensava di amarlo ancora di più.
Quando tornava a casa Gigi il Magutt ci ripeteva «Io questa me la sposo», lo urlava appena apriva la porta, cercando di centrare al volo il gancio del cappello.
«Gigi, una come quella la fanno sposare con un medico, vacci finché puoi», gli dicevamo.
E il cappello cadeva a terra.

In tutto eravamo quattro, tutti scapoli. Ci dividevamo due appartamenti sullo stesso pianerottolo in un palazzo di Viale Gorizia. Affacciandoci dalla finestra vedevamo le barche nella Darsena e sporgendoci un po' verso destra riuscivamo persino ad immaginare uno scorcio del naviglio. La Rosaria, che ci veniva a fare i mestieri due volte a settimana, diceva che avevamo bisogno di una donna, che non era possibile vivere in quella sporcizia. Una volta aveva trovato nel bidet degli attrezzi da lavoro di Gigi e per convincerla a restare avevamo dovuto alzarle la paga. Abitava a Opera e dopo i quattro piani di scale si aggrappava alla ringhiera ripetendo «Oioioi il mio diabete». E nessuno capiva mai cosa c'entrasse il diabete con le scale.
«Su Rosaria su», le facevamo noi passandole un bicchiere d'acqua.
Oltre a me e Gigi il Magutt c'erano il Mario e l'Erardo. Lavoravano entrambi sul 15, uno guidava e l'altro era allievo controllore. L'Erardo era bravissimo a mettere a tacere gli ubriachi e ormai erano anni che si facevano assegnare lo stesso turno. Preferivano quello che andava dal tardo pomeriggio a notte fonda. Era raro che fossimo tutti a casa nello stesso momento, e quando capitava finivamo al bar di sotto e tiravamo le tre seccando bottiglie di rosso e parlando di politica e della morte di Fausto Coppi, di cui ancora dopo un mese non riuscivamo a capacitarci. Altre volte giocavamo a scopa nella nostra cucina, mia e di Gigi, che il Mario e l'Erardo nella loro non ci avevano mai preparato neanche un uovo. L'intonaco era crepato in diversi punti, sul soffitto sopra i fornelli si era formato un alone scuro di cenere, le mensole erano fissate male e ogni volta che una porta sbatteva le stoviglie vibravano una contro l'altra. Era l'unica stanza della casa che avesse un tavolo e non c'era un mobile che non fosse stato recuperato su un marciapiede o da qualche parente che voleva liberarsene. L'Erardo quando fumava teneva la sigaretta stretta all'attaccatura tra indice e medio, ad ogni boccata pareva cercasse con passione il palmo della mano e noi lo osservavamo sogghignando.
«Che volete, ho imparato così», ci diceva placido.
Io ero l'unico che studiava ancora, lettere classiche. Per pagarmi l'università ogni tanto aiutavo Gigi in cantiere.
«Vuoi che gliele dia io, le ripetizioni di latino all'Eliana?» lo provocavo mentre andavamo al lavoro. Ma quello quasi non mi stava neanche a sentire.

Così passava l'inverno. E l'inverno a Milano, in quei mesi scuri tra il Natale e la primavera, è un deserto senza speranza, è la pianura padana che cerca di entrare dalla finestra e si accomoda in salotto. Andavamo a dormire e ci svegliavamo senza riuscire a dire con certezza che ore fossero, ci facevamo coccolare dalla nebbia ripetendo macchinalmente i soliti, quotidiani gesti. Il Mario ad ogni incrocio malediceva i passanti che si gettavano in mezzo alla strada un attimo prima del passaggio del tram. Noi altri camminavamo a testa bassa nel buio, stringevamo stretta la sciarpa e cercavamo di scacciare il freddo che ci attanagliava le tempie interrompendo ogni pensiero. Continuavamo ad avere i geloni alle mani ogni volta che prendevamo la bicicletta, io studiavo per gli esami, l'Erardo faceva scendere gli ubriachi dal 15 tenendoli per il bavero del cappotto. Finché un giorno di quegli ultimi mesi ostili Gigi il Magutt aveva combinato il guaio.
Era tornato a casa col viso amareggiato e le mani affossate nelle tasche del cappotto. La porta d'ingresso aveva sbattuto facendo tintinnare tutti i bicchieri sulla mensola in cucina. Gigi non aveva urlato ai muri che “quella se la sarebbe sposata”, non aveva neppure tirato il cappello verso il gancio. Gli era rimasto sulla testa, floscia e mesta lana sbattuta su quei capelli castani e bianchi dalla polvere di gesso.
«Sono un pirla», mi aveva detto Gigi il Magutt con il cappello ancora calcato in testa, dopo essersi dimenticato l'appuntamento con l'Eliana.
Era il giorno del suo onomastico, e avrebbe dovuto portarla al ristorante, una trattoria bolognese sul Naviglio Grande, con i soldi dell'ultima paga. L'aveva proposto lui.
«Che finalmente ti posso offrire qualcosa», aveva aggiunto.
E invece all'appuntamento per l'onomastico Gigi il Magutt non ci era mai andato. Era rimasto a brindare l'arrivo di quei pochi soldi con gli altri manovali di fronte al cantiere di Mac Mahon. Si erano versati da bere per un'ora, e poi un'altra ora, e poi un'altra ora. Gigi aveva guardato le gambe delle cameriere, le aveva apprezzate e aveva disquisito con i presenti su quali fossero le migliori, senza ricordarsi di quelle che lo stavano aspettando dall'altra parte della città.
«Dice che aveva ragione la sua amica, la Bice, che con uno come me non c'è futuro».
Gigi si era tolto il cappello, poi se l'era rimesso, aveva guardato me, i miei libri, il mio vocabolario, ed era uscito senza dire altro.
Quella notte non era più rientrato.

La casa occhieggiava alle prime luci del giorno dal centro del Carrobbio, piantata in mezzo alla strada esattamente sotto alle finestre dell'Eliana. Il punto focale di un convulso nodo di macchine, tram, esseri umani che si dipanava verso via Torino tra le urla degli impiegati in ritardo e le sirene dei vigili. Bisognava divellerla dalla strada, qualcuno aveva chiamato i pompieri, che si sbrigassero che la gente doveva andare al lavoro. Era un palazzo alto all'incirca un metro e sessanta centimetri, largo un poco di più. In mattoni grezzi, senza rivestimenti e intonaco, ma intorno alle finestre e alla porta erano stati posti dei listelli di legno a segnare gli stipiti. Aveva addirittura il suo bravo camino, e sulla facciata era stato scritto in vernice rossa “Scusa”, in quello spazio tra le finestre dell'ultimo piano e il tetto, dipinto anch'esso dello stesso colore. Era un palazzo frettoloso, tirato su alla luce dei lampioni, ma dalle proporzioni perfette. Minuscolo, in mezzo ai giganteschi edifici che lo attorniavano, svettava dignitosamente tra le rotaie, rivendicava con sfida la sua presenza nella pianta urbana.
Eravamo stati sicuri fosse opera di Gigi fin da subito, dalla telefonata del Mario dal bar di Cesare Correnti.
«Una casa», aveva detto il Mario.
«Una casa come?» gli avevo chiesto.
«Una casa casa. Con le finestre e il tetto, alta fino al petto, larga come quattro cassette una accanto all'altra. È cementata alla strada, non passa niente, è tutto bloccato».
Ci chiedevamo come avesse fatto, a costruire una casa per le bambole, una casa per l'Eliana, presumibilmente tra il tramonto e l'alba, senza che nessuno l'avesse visto, senza che un tram o una macchina gli fossero andati contro, mandando all'aria i mattoni ancora prima che potessero saldarsi.
Al Carrobbio abbiamo osservato i pompieri prenderlo a picconate, il palazzo di Gigi il Magutt. Sventrarlo a poco a poco e poi raschiarne via le macerie dalla strada. I bambini cercavano di avvicinarsi, chiedevano alle madri che li trattenevano perché lo stessero distruggendo. Nessuno, a parte loro, sembrava ritenere più di un momentaneo disagio da estirpare la dichiarazione d'amore che Gigi il Magutt aveva cementato nel centro di Milano.
L'Eliana ci aveva riconosciuti dall'altro lato del marciapiede, ci aveva salutati con un cenno della mano, mentre guardava il suo palazzo con gli occhi che ridevano.
«Guarda come se la gongola», aveva commentato il Mario mentre gli ultimi pezzi di calce rotolavano per la strada.
Sapevamo che Gigi se la sarebbe ripresa, l'Eliana, con quella bravata da muratore romantico.

Gigi il Magutt il necessario per costruire quella casa del perdono l'aveva rubato al cantiere di Mac Mahon, diventato per lui un'entità dotata di vita propria, che l'aveva strappato a forza dalle braccia dell'Eliana. Ce lo aveva raccontato in una trattoria davanti al deposito in Pietro Custodi. Eravamo andati a recuperare l'Erardo per riferirgli le spacconate del nostro manovale innamorato e l'avevamo trovato lì, Gigi, sotto il tabernacolo all'entrata che guardava in su, come se la sua prodezza notturna non gli fosse bastata e si volesse arrischiare pure a spiare sotto le gonne della Vergine.
«Ecco, ringrazia la Madonna!» gli aveva urlato il Mario dall'imbocco della via.
«L'Eliana se la mangiava con gli occhi quella tua casuccia. Ringrazia il Cielo, 'va!»
Eravamo rimasti a commentare con dovizia di particolari l'impresa del Gigi, appiattendoci contro il muro per scansare i tram che andavano e venivano. Dall'entrata del deposito vedevamo il soffitto che pareva ricamato nel ferro in un intreccio di travi metalliche. Un po' più in là c'era il cielo di Milano, dello stesso colore della lamiera del deposito, disteso sopra di noi come una coperta. Ma non ci pareva più di essere prigionieri della nebbia, non sembrava quasi neanche febbraio. Eravamo felici, tutti, di una felicità impercettibile e immotivata, Gigi il Magutt con quella casa aveva fatto il miracolo, mica la Madonna.
«La colazione ve la pagate voi però», ci aveva detto mentre entravamo in trattoria.
«Che se l'Eliana ancora mi parla gliene dovrò offrire almeno venti».
Quando gli avevamo chiesto se qualcuno in Mac Mahon poteva averlo visto portare via tutta quella roba, Gigi il Magutt aveva continuato a versarsi il vino in silenzio.

L'avevano trovato il Mario e l'Erardo, tornando dal turno di notte, sulla strada di casa. L'avevano trovato bloccato tra due piemontesi grossi e quadrati, venuti dal Mac Mahon per scrivergli in faccia con i pugni che le sue romanticherie poteva farle con la calce di qualcun altro.
Gigi il Magutt si trovava imbelle tra quelli, quasi ridicolo mentre un piemontese gli teneva stretta intorno al collo la sciarpa che gli aveva cucito sua nonna quando se n'era venuto a Milano, e l'altro lo riempiva di colpi sul naso e sul costato. Così in due lo trascinavano giù dalla scalinata di Ascanio Sforza portandolo lontano dalle luci della strada, verso il Pavese, che alle due di notte è frequentato solamente dai topi.
«Ma che volete, avranno voluto rapinarlo», avevano sostenuto i carabinieri alzando le spalle. Si erano materializzati dalla nebbia, mentre quei due se la davano a gambe lungo la sponda del naviglio rincorsi dal Mario e dall'Erardo. Si erano trovati lì, i due carabinieri, i due tranvieri e i due piemontesi, con in mezzo Gigi il Magutt, tutto pesto, che a malapena si reggeva sulle gambe.
«E sai andargli a spiegare la storia di Gigi e dell'Eliana», mi aveva raccontato il Mario.
«Meglio lasciargli credere che cercassero dei soldi».
Gigi il Magutt era tornato a casa con tante di quelle costole in meno che Dio avrebbe potuto crearci un esercito di prime donne, pronte a farlo impazzire d'amore e costruire monumenti in loro onore per tutta la cinta dei Bastioni. Il naso era gonfio e rosso come un pomodoro e gli occhi due melanzane mature.
«Gigi con la tua faccia ci prepariamo un minestrone», gli avevo fatto io come aveva messo piede dentro casa.
Non aveva neanche più il cappello da lanciare, finito chissà dove mentre gli facevano conoscere a suon di cazzotti tutto il Ticinese. E mentre l'Erardo e il Mario mi raccontavano l'accaduto quello se ne stava a guardarci cercando di aggiustarsi la faccia con del ghiaccio. Spostava la pezza a destra e a sinistra, poi verso il naso, poi ancora sulle borse degli occhi, e non era mai abbastanza per coprire ogni danno. Non diceva una parola, pareva quasi divertirsi mentre quei due mi dicevano che l'avremmo trovato l'indomani in un fosso, se loro non avessero fatto quel turno straordinario.
Ma Gigi il Magutt non faceva una piega, con le sue ossa rotte e il suo ghiaccio se ne stava beato a guardare il soffitto. Perché tanto, prima delle botte, aveva passato il pomeriggio nei giardini di Piazza Vetra, che con quella casetta in mezzo al Carrobbio se l'era ripresa, l'Eliana.

30 settembre 2011

*

Mi sono chiesta più volte, in questi mesi, se tenere o cancellare il blog. Il concetto stesso di "blog" comincia a urtarmi, in un mondo in cui tutti si improvvisano raffinati conoscitori di politica, società, cultura e chi più ne ha più ne metta. L'insieme di queste pagine, poi, è piuttosto disorganico, ci sono link a miei racconti su altri siti, pseudo-memorie, mini narrazioni, il tutto senza un filo conduttore vero e proprio. Alla fine, ieri sera, ho riletto ogni pagina: ad alcuni post sono decisamente affezionata (alla storiella di Sartre e Simone De Beauvoir, per esempio), in altri invece, sebbene siano vecchi solo di un paio d'anni, mi riconosco con difficoltà. Insomma, ero sul punto di decidermi a cancellare il tutto quando sono incappata in una cosa scritta nell'ottobre 2009, nulla di speciale se non per il fatto che fra le righe ho trovato questa frase "[..] e le uniche due torri di Milano, una a destra e una a sinistra". Stavo descrivendo la visuale dal Duomo, quindi immagino mi riferissi alla Torre Velasca e al Pirellone. In un altro post, pubblicato per caso esattamente un anno dopo, nell'ottobre 2010, parlavo invece della foresta di grattacieli che assale l'Isola. Adesso, alla vigilia dell'ottobre 2011, guardando Milano dal tetto del Duomo non vedrei più due torri, una a destra e una a sinistra, ma una marea di grattacieli e gru. Allora ho pensato che forse vale la pena tenerlo, questo spazio disordinato che ho aggiornato in modo palesemente discontinuo negli ultimi tre anni. E forse vale anche la pena continuare a scriverci di tanto in tanto. Cambia la città, cambiamo noi, ma in questo momento sento la necessità, totalmente autoreferenziale -per carità-, di non lasciar scappare i ricordi.

17 febbraio 2011

Castelli

Di nuovo per Follelfo, di nuovo brevissima e sul morboso andante.
Questa cosa comincia così: "Margherita mi osservava in silenzio", finisce cosà: "Poi era uscita in corridoio scuotendo la testa", e la leggete QUI.

5 febbraio 2011

Miglioramento

Ho scritto questa cosa su Follelfo, è brevissima (ma proprio brevissima) e anche un po' sentimentale.
Finisce così: "Non ho mai capito se sapesse che non era vero", e potete leggerla QUI.

25 dicembre 2010

Three to get ready

La cosa che odiavo di più era quando il getto della doccia diventava improvvisamente freddo. Succedeva durante tutto l'anno, ma me ne rendevo conto solo in inverno. Era un inconveniente dovuto ad un difetto delle tubature, che prima di arrivare al bagno passavano per la cucina dell'appartamento di sotto. Ci vivevano due francesi, nell'appartamento di sotto, avevano una bambina piccola e cucinavano tutto il giorno. Mi rubavano l'acqua. La temperatura calava di colpo, passava dai trentacinque ai quindici gradi senza preavviso. Io allora mi lanciavo contro il muro, aderivo con la schiena alle piastrelle alzandomi in punta di piedi per non prenderne neanche un poco, di quell'acqua gelida. Osservavo il getto, allungando di tanto in tanto una mano per sentire se era tornato caldo. Era un gesto vano, una domanda retorica, perché intanto le gocce mi schizzavano impietose sulle cosce, facendomi venire la pelle d'oca. Ogni tanto lo sbalzo di temperatura mi faceva piangere. Quando sentivo farsi strada tra le mie scapole il rivolo gelato, mentre avevo i capelli ancora coperti dal sapone che stavo massaggiando, mi scoppiavano in petto una serie di singhiozzi brevi e veloci, a metà strada tra una risata e una protesta. Strepitavo forte, ritraendo con stizza le dita dei piedi, poi un attimo dopo mi sentivo stupida, ammutolivo. Restavo così, a fissare l'acqua corrente spingendomi il più possibile contro il muro, per minuti eterni che continuavano ad accumularsi uno sull'altro. Era l'esperienza più simile alla fede che avessi mai provato, quella disperata attesa dell'acqua calda.